Se vuoi la pace, prepara la guerra” scriveva Flavio Vegezio Renato, studioso latino del primo secolo dopo Cristo. Da allora la citazione è stata spesso utilizzata negli studi politici (ad es. nel “Principe” di Machiavelli) e nelle relazioni internazionali, per affermare il principio della dissuasione, ovvero la costituzione di un apparato militare paragonabile a quello del nemico potenziale, come metodo di equilibrio tra le nazioni e di deterrenza dei conflitti.

Quello che è accaduto durante la Guerra Fredda ha dimostrato che una trattativa di pace ha successo e si raggiunge più facilmente un accordo se esiste una condizione di parità riguardo gli arsenali. In pratica quando le armi della diplomazia sono spuntate, l’ultima possibilità sembra mettere in mostra i muscoli e prepararsi ad uno scontro: se l’altra parte capisce il pericolo, probabilmente si raggiunge l’accordo. Questo va bene per scongiurare la guerra, ma la pace…?

Dobbiamo rassegnarci all’idea da molti condivisa che sia solo “la parentesi tra due guerre”? Quello che oggi stiamo vivendo è in realtà un fallimento della diplomazia internazionale e un tentativo di risolvere le questioni con la forza, ma rispetto al passato, perché questo scenario è visto e rivisto, il conflitto russo-ucraino ha caratteristiche mai riscontrate prima, che si discostano da tutti i codici comportamentali precedenti e gli studi fatti.  Di certo siamo in un contesto culturale diverso e di fronte alla prima guerra davvero “social”. Il coinvolgimento e la diffusione dei social media è ormai ad un tale livello, che sui marchingegni informatici di ognuno di noi, vecchi o giovani, utenti abituali o occasionali di Facebook o Instagram, si trova una quantità impressionante di materiale fresco, giunto direttamente dalle zone dal conflitto.

La prima cosa che mi viene da dire è che, poiché l’Ucraina è un paese occidentale, quasi tutti i suoi abitanti sono avvezzi all’uso dei social e quindi ognuno di essi è un Media, mentre in conflitti che si svolgono anche da anni in altre parti del mondo, i massacri ci sono ma non vengono divulgati, perché pochissimi hanno uno smartphone che documenti quello che succede. Ecco quindi immagini di città che molti di noi non conoscevano prima, riprese durante la loro distruzione, con video su Tik Tok o live su Facebook e Telegram, o migliaia di foto su Instagram. I social stanno altresì permettendo di aggirare la censura di Mosca, che ha chiuso praticamente molte testate giornalistiche, televisive e radiofoniche non allineate al regime e che mantengono accesa una luce di speranza in chi vuole davvero sapere che accade fuori e dentro il Paese. Su Telegram in particolare, sembra si stia combattendo una guerra parallela, con i due opposti schieramenti, che fanno largo uso di questo sistema di messaggistica più sicuro di WhatsApp, per comunicare gli spostamenti del nemico e dare notizie in tempo reale.

Contemporaneamente, quando proclamare la propria posizione può essere molto pericoloso, i social network sono la piazza dove esprimere le proprie idee e diventano un’arma di propaganda o contro-propaganda dal potere imprevisto, soprattutto per chi è ancora legato ai vecchi modelli novecenteschi di guerra. Ovvio che chi fornisce questo servizio è anche un protagonista dell’economia mondiale e deve rispondere delle sue politiche aziendali, in un momento in cui l’Occidente impone sanzioni molto severe alla Russia. Qui il vero conflitto è tra affari ed etica!!! Al di là delle questioni morali, la situazione è comunque inedita. A volte è la stessa modalità della testimonianza ad essere inopportuna, a causa dei codici espressivi dei Social, che rischiano di essere bizzarri, se non grotteschi, con le terribili immagini di bombardamenti, esodi, esecuzioni sommarie e fosse comuni: dolore, dolore, dolore, insomma. L’effetto è insolito, ma si sa che ogni generazione comunica con i codici che conosce e con gli strumenti che sa usare e che ha a disposizione. Inoltre va precisato che i Social usati da tutti in realtà hanno editori e proprietari che non sempre sono neutrali o dalla parte di chi scrive, vedi Tik Tok che è cinese, per cui le notizie e i filmati divulgati vanno visti con occhio critico. Questo perché i social, per quanto proclamino di essere soltanto dei distributori di contenuto e non degli editori, in realtà non lo sono quasi mai.

Si tratta di piattaforme che in realtà non sono libere, perché legate a logiche finanziarie e commerciali a causa dei costi e soprattutto dei profitti ingenti che producono e i cui algoritmi, suggerimenti e censure non sempre sono scevri da “selezioni e purghe” gradite alla politica. I nuovi paradigmi espressivi di questa guerra via social hanno le implicazioni di una comunicazione veicolata attraverso un colosso informatico con le sue logiche: si tratta di una nuova forma di giornalismo “dal basso”, fatto dai cittadini e non dai professionisti, o è solo un invito a continuare a cliccare? La domanda non è banale e richiede una attenta riflessione…

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